Focolarini: in un libro-testimonianza, l’altra verità sul movimento di Chiara Lubich
News pubblicata il 1 febbraio 2020 • Testo di Valerio Gigante
[Recentemente] ci siamo occupati del centenario della nascita di Chiara Lubich, fondatrice dell’Opera di Maria, più conosciuta come Movimento dei Focolari. Abbiamo sottolineato la crescente affermazione dei focolarini nella Chiesa contemporanea, la loro capacità di avere loro esponenti e sostenitori all’interno della Curia vaticana, tra il personale che si occupa degli ecclesiastici, tra i vescovi diocesani, i teologi, le nunziature apostoliche. Un potere da non sottovalutare. Tanto più perché Lubich – morta nel 2008 – pare lanciatissima verso la canonizzazione. E si sa, la canonizzazione, consacrazione ufficiale della bontà, anzi della santità, di un carisma, è un formidabile strumento di penetrazione presso le masse e l’opinione pubblica cattolica.
Non ci sono però solo voci apologetiche sull’esperienza focolarina e su Chiara Lubich, come quelle che da settimane si leggono sui giornali o si ascoltano nei programmi televisivi. Come per altre realtà cattoliche molto strutturate, molto verticistiche, molto chiacchierate (ad esempio Opus Dei, Legionari di Cristo, Comunione e Liberazione, ma si potrebbero aggiungere la Comunità di Sant’Egidio, i neocatecumenali), ci sono voci critiche, anche di “fuoriusciti” che hanno riletto criticamente la loro appartenenza al movimento di Chiara Lubich.
Una di queste è quella di Renata Patti, per quarant’anni all’interno del Movimento dei Focolari, da quando era una ragazzina di soli 11 anni (ma vi entra stabilmente a 18, a Milano) a quando, con la maturità di una donna adulta, nel 2008, a 51 anni, decide di mettere la parola fine alla sua esperienza ecclesiale. Patti ha pubblicato un suo libro, liberamente consultabile su Internet. Si intitola Io e il Movimento dei Focolari. Storia di un inganno e di una liberazione. In esso racconta dall’interno la realtà focolarina. Il testo è introdotto da una breve presentazione di Vincent Hanssens, professore emerito all’Università Cattolica di Lovanio, che parla di «testimonianza preziosa [...] contro le derive che possono manifestarsi all’interno di associazioni o movimenti».
Dopo il racconto dei primi contatti con il movimento, Renata Patti ricorda del suo arrivo nel 1977 a Loppiano (Incisa Valdarno), dove ha sede il centro di formazione dei futuri focolarini. La comunità era articolata in “Focolari”, con orari rigidissimi, compiti precisi, una gerarchia ferrea che inizia dalla capo- Focolare, e procede, attraverso i capi-zona, sempre più in alto, fino a Chiara Lubich. L’obbedienza, racconta l’autrice, è l’elemento fondamentale che consente al superiore gerarchico di esercitare un potere e un controllo assoluti sulle persone delle quali ha la responsabilità. I focolarini lo chiamano il carisma dell’unità, teorizzato dalla Lubich sin dall’esperienza mistica vissuta del 1949, periodo che la fondatrice aveva ribattezzato “Paradiso 49”. Ma unità, racconta Patti, all’interno del movimento, diventava uniformità. La volontà del singolo deve uniformarsi a quella dei suoi superiori. E il culto della fondatrice era il necessario presupposto da cui discendeva ogni autorità all’interno del movimento. «I nostri superiori alimentavano in noi un atteggiamento di adulazione nei confronti di Chiara Lubich e di qualsiasi autorità religiosa da lei designata al cuore delle strutture dell’Opera», racconta l’autrice. E il senso del “fare unità” le veniva spiegato così: «Non bisogna ragionare, ma tagliarsi la testa e compiere fino in fondo la volontà di Dio espressa dalla capo-focolare».
Renata trascorre a Loppiano un po’ più di due anni prima di essere inviata nella sua nuova «zona». «L’unica domanda che mi è stata fatta era questa: “Che lingua conosci meglio, l’inglese o il francese?” La mia risposta: ”Il francese”. Per questo motivo, credo, Chiara e la responsabile del Centro delle Focolarine scelsero di mandarmi in Belgio». «Sola e per telefono, dovevo annunciare ai miei genitori e alla mia famiglia la mia partenza per l’estero. Lontano, troppo lontano, per i miei genitori, che mi hanno chiesto di scrivere a Chiara Lubich, supplicandola di tener conto della loro età e del fatto che ero figlia unica». Forse Chiara capì, di certo non cambiò la decisione. E Renata andò in Belgio. «Cambiavamo Focolare ogni tre o quattro mesi circa. Era la capo-scuola che decideva (a volte con le capo-focolare, a volte sola). Era un evento temuto e temibile. Sentimento di timore, di paura o di gioia e di liberazione, voglia di novità o sentimento di nostalgia fino alle lacrime».
Dopo l’esperienza belga, finita con un rientro in Italia deciso improvvisamente dalla sua superiore, dal 1982 Patti continua a frequentare il focolare a Milano, pur avendo il permesso di lavorare all’esterno. Nonostante ciò, il controllo era ferreo anche su ciò che l’autrice guadagnava: «Ogni mese, come ogni focolarina fuori Focolare, dovevo indicare su un foglio “le entrate fisse (vale a dire il mio stipendio e gli aumenti) e le previsioni di spesa” (in tutti i Focolari del mondo ci si riferisce a questo foglio con il termine italiano “preventivo”) e alla fine del mese “le entrate effettivamente percepite e le spese effettivamente sostenute” (in tutti i Focolari del mondo ci si riferisce a questo foglio con il termine italiano “consuntivo”). Così facevano tutti i Focolari e questi due fogli dovevano essere spediti al Centro delle focolarine a Rocca di Papa. L’“avanzo”, cioè la differenza tra le entrate e le uscite, era inviato al Centro a Rocca di Papa (Roma). Ci dicevano che questi soldi erano utilizzati per i Focolari più poveri, per esempio in Africa o altrove».
Agli obblighi dei focolarini si aggiungeva quello di riempire quotidianamente, un formulario detto «schemetto», da inviare a cadenza quindicinale al/alla capo-focolare e poi al/alla capo-zona. «Mettevamo delle crocette o altri simboli per indicare se avevamo fatto o meno “le pratiche di pietà” (rosario, visita al Santissimo Sacramento, messa quotidiana). Dovevamo descrivere l’apostolato quotidiano e gli incontri fatti, nonché gli indirizzi delle persone incontrate». «Annotavamo le spese effettuate nel corso della giornata». E soprattutto fare una sorta di esame di coscienza prima di andare a letto. «A volte “dimenticavamo” di farlo e la capo-focolare ci richiamava all’ordine. Gentilmente, ma con fermezza. Era una volontà di Dio che la stessa Chiara ci diceva di fare». Lo “schemetto” serviva come base per “l’ora della verità”, una sorta di confessione pubblica cui i focolarini sono chiamati in vista di una correzione «fraterna», «che si trasforma a volte in un vero e proprio tribunale d’accusa».
Il percorso di Renata Patti dentro il movimento si chiude un mese dopo la morte di Chiara Lubich, nell’aprile del 2008. «Ricostruirmi, fare del bene e avere fiducia nella vita! È l’unica cosa che conta per me da adesso in poi», sono le parole con cui si chiude il suo libro-testimonianza.1
1. Fonte: Valerio Gigante, Adista, 1.2.2020.
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