Documenti

Il dolore spirituale-psicologico nell’esperienza dei Focolari

Testo di Guido Licastro

Ultimamente mi è capitato tra le mani il libro di Antonio Coccoluto Un filo d’erba che fissa le stelle.1 Secondo la presentazione ufficiale, il testo

È il racconto della sorprendente vicenda umana e interiore di un protagonista poco conosciuto del Movimento dei Focolari: Egidio Santanchè, meglio noto come “Soave”. Utilizzando molto del materiale lasciato dal protagonista, l’autore – che lo ha conosciuto personalmente – compone un quadro variegato che spazia tra vicende personali, familiari, intime e alcuni eventi esterni a carattere pubblico a partire dalla fine degli anni Trenta del Novecento fino all’inizio del nuovo secolo. In particolare emerge un inedito spaccato di alcune vicende avvincenti, drammatiche e, in parte, non prive di un certo mistero che hanno fatto da sottofondo allo sviluppo del Movimento dei Focolari e della vita più intima della sua fondatrice: Chiara Lubich.

Sia l’autore, Antonio Coccoluto che il “protagonista”, Egidio Santanchè sono focolarini a vita comune, consacrati celibi (Santanchè è morto nell’anno 2005). A spingermi alla lettura è stato il fatto che l’autore affronta due aspetti problematici relativi alla psiche nei suoi momenti di estrema difficoltà e dolore intenso: la prova spirituale (intesa nel senso di prova/notte-dello-spirito come per San Giovanni della Croce) e la psicosi.

Il mio intento, né esaustivo né velleitario, è quello di porre l’accento su un punto particolare della spiritualità del Movimento dei Focolari: quello che viene denominato brevemente come “Gesù abbandonato” e che viene citato insistentemente dall’autore del libro.

Assieme a questo aspetto, fanno da corollario altri punti che, per ragione di brevità e per focalizzare meglio l’argomento, citerò solo come risultanza e come conseguenza del punto focale.

Ho preso inoltre in prestito, come raffronto e approfondimento, alcuni passaggi da altri due libri: Inchiesta su Gesù (2006)2 e Oltre il confine. Esperienza mistica e psicoanalisi (2017)3.

Inizio lasciando il racconto a Antonio Coccoluto, l’autore del libro:

Per chi ha cominciato questa avventura quando le difficoltà legate all’approvazione da parte della Chiesa erano ormai superate è difficile farsi un’idea reale di quale fosse stato il rischio di coloro che, per primi, avevano cominciato un’esperienza così radicale.” Per i più impegnati a seguire Chiara Lubich nelle fasi iniziali del Movimento dei focolari, ha significato effettivamente lasciarsi alle spalle tutto per qualcosa, certamente, di grande ma di cui nessuno - neanche Chiara - conosceva lo svolgimento successivo. Quella che allora appariva una pazzia agli occhi dei più - per di più concretizzata da persone mature, professionalmente realizzate e con incarichi di responsabilità - ci dà la cifra di quello che l’esperienza dei Focolari doveva essere a quei tempi. […] L’espansione che è seguita alla nascita del Movimento, ovviamente, ha avuto un prezzo. Il ritmo di vita che scandiva quei primi tempi, per la travolgente esperienza umano-spirituale che si viveva, era così intenso che poteva succedere di non saper misurare le forze e di ritenere in retta coscienza - anche se a volte con un entusiasmo da neofiti - di non potersi effettivamente sottrarre alle continue richieste che la vita quotidiana poneva. Per la maggior parte delle persone ciò si risolveva normalmente in semplici difficoltà dovute - si direbbe oggi - allo stress. Per qualcun altro, come per il nostro protagonista, tutto ciò portò invece, quasi subito, a un periodo di vera difficoltà psicofisica che sfociò imprevedibilmente e velocemente in un vero esaurimento nervoso.4

L’autore ha fatto un quadro della vita di Focolare soprattutto nei primi tempi ma non ha spiegato o lascia indefinito l’impatto di queste continue richieste; non è un caso se proprio questo fattore sia stato uno degli elementi che provocò enormi problemi a molti degli appartenenti al Movimento dei Focolari che hanno poi deciso di lasciare. In soldoni: una delle chiavi di lettura dell’allontanamento e del malessere profondo di chi poi in seguito prese le distanze nella propria vita da questa organizzazione.

L’autore, preso da apparente timore di gettar fango sulla organizzazione di cui fa parte, comincia a intorpidire le acque usando l’espressione “esaurimento o prova spirituale” - in quello che sembra un tentativo di sviare le indagini.

Cercando una risposta a tale narrazione, mi viene spontaneo provare a ragionare su questo fenomeno e sui fenomeni a esso collegati:

• lo slancio iniziale che fa scordare gli sforzi fisici e psichici;

• il fatto che, per i primi adepti, seguire Chiara Lubich rappresentò una novità assoluta e seduttiva (lo è stato per diverse generazioni di suoi seguaci);

• la mancanza di sensibilità per la questione equilibrio-psicofisico, nel periodo storico che va, almeno, dal Secondo Dopoguerra agli Anni Novanta. Il voler decifrare lo stress nell’orbita delle prove spirituali, un tentativo - tanto puerile quanto deleterio - di salvare il bambino (l’organizzazione e le sue fondamenta spirituali e ideologiche) e non ammettere che in realtà le pratiche di obbedienza e uniformità al gruppo portavano alla destrutturazione della persona in toto, sia dal punto di vista fisico che psicologico. In definitiva, tutto era soggiogato alla spiritualità sicuramente accattivante e quindi alla figura della sua fondatrice che ne rappresentava l’essenza stessa;

• il progressivo inquadramento all’interno della struttura del gruppo;

• il “love bombing”;

• il racconto che è la base e il mantra che tiene legato il popolo della fondatrice; ne diviene piuttosto l’essenza stessa poiché contiene tutti gli elementi cardine dell’organizzazione stessa: una sorta di favoletta dai buoni sentimenti;

• la scelta della fondatrice stessa come generatrice della “luce ideale” (mia allocuzione sintetica) e come esempio unico a cui sottostare.

Lascio la trattazione di questi punti ad altra occasione e mi concentrerò sulla locuzione che è da considerare come una struttura portante (o quid fondativo): il concetto di “Gesù Abbandonato” ovvero colui che per Chiara e le sue prime compagne rappresentava il culmine dell’amore di Dio. Un amore assoluto. In ultima pagina si collegherà Gesù Abbandonato all’esempio di Chiara come generatrice della fonte spirituale.

Qui sta la spiegazione di tutto: la specifica lotta del focolarino, la ricerca della soluzione d’ogni problema, la strada senza la quale non ha senso vivere o lottare.

Tale sequela può portare a situazioni estreme perché non ammette deroghe di sorta.

Sorge il dubbio che, dovendo fare i conti con la psiche, la scelta in determinati stati di estremo turbamento, dove vengono a mancare l’orientamento generale e la perdita di punti di riferimento, possa perdere il suo fondamento perché questi è strettamente legato al concetto di ”scelta”; scelta che, notoriamente, è collegata strettamente alla volontà stessa di lottare . Se la “formula magica” non funziona per mancanza dei fondamentali, essa viene sostituita da un muro che rimane invalicabile senza l’ausilio di cure mediche specialistiche.

La storia di Egidio Santanchè ne è uno specchio, per certi versi atroce in quanto a dolore, e riflette le distorsioni dovute al profondo disagio e depressione; lo dice il Coccoluto stesso, non io.

Ma Egidio è l’unica vittima del “sistema”? Pare di no.

Annamaria Santanchè, sorella di Egidio nonché focolarina a sua volta, gli scrive in una lettera trascritta in parte nella biografia:

Il dolore era una voragine di Dio… quanta luce.5

Sulla confusione tra luce e voragine ha scritto Fabrizia Raguso:

Questa dimensione paradossale voragine-luce contrasta con varie esperienze bibliche di prove e sofferenza: la prova è prova, la luce tuttavia può seguire la prova, ma non si mescola con essa. Si pensi per esempio all’esperienza di Elia sull’Oreb, dove, dopo un profondo momento di prova e sconforto fino a desiderare la morte, Elia “riconosce” la presenza di Dio in una brezza leggera. Ciò contrasta invece, con questa visione tipica del dolorismo che Lubich propone.6

Con le sue parole la sorella esprime in maniera singolare lo stesso imperativo del dolore e introduce il termine di “voragine”, che pare illuminante, collegandolo con Dio. La frase termina con un “quanta luce”: un trinomio, dolore-voragine-Dio, che sembra giustificare il male che porta il dolore. Un loop o un lapsus freudiano?

Per intenderci, senza il dolore la luce non è giustificata, ma è un dolore che viene chiamato “voragine”, direi non a caso. Siamo, sembra, dinnanzi ad una ricerca del dolore. Per dirla con le parole della Lubich stessa:

Ho un solo Sposo sulla terra: Gesù Abbandonato: non ho altro Dio fuori di Lui. In Lui è tutto il Paradiso con la Trinità e tutta la terra con l’Umanità. Perciò il suo è mio e null’altro. E suo è il Dolore universale e quindi mio. Andrò per il mondo cercandolo in ogni attimo della mia vita. Ciò che mi fa male è mio. Mio il dolore che mi sfiora nel presente. Mio il dolore delle anime accanto (è quello il mio Gesù). Mio tutto ciò che non è pace, gaudio, bello, amabile, sereno… in una parola: ciò che non è Paradiso. Poiché anch’io ho il mio Paradiso ma è quello nel cuore dello Sposo mio. Non ne conosco altri. Così per gli anni che mi rimangono: assetata di dolori, di angosce, di disperazioni, di malinconie, di distacchi, di esilio, di abbandoni, di strazi, di… tutto ciò che è lui e lui è il Peccato, l’Inferno. Così prosciugherò l’acqua della tribolazione in molti cuori vicini e – per la comunione con lo Sposo mio onnipotente – lontani. Passerò come Fuoco che consuma ciò che ha da cadere e lascia in piedi solo la Verità. Ma occorre esser come Lui: esser Lui nel momento presente della vita.7

Al testo appena riportato ho associato una citazione sul modo di trattare il dolore della croce come il più tragico della storia, come assoluto, nel libro Inchiesta su Gesù; dopo aver citato il benedettino Jacques Dupont, biblista e teologo, che mise a confronto le sofferenze di Gesù con altre, gli autori scrivono:

la teologia cristiana, infatti, non attribuisce la salvezza dell’umanità al fatto che Gesù abbia sofferto più di qualsiasi altro suppliziato. Sarebbe un’ingenuità e un pensiero orribile da numerosi punti di vista. Sarebbe un errore.8

Sovrapponiamo il testo citato con l’enfasi espressa dalla Lubich stessa: mi sembra calzante.

Guardiamo ancora, in proposito, il libro di Coccoluto:

In riferimento alle scelte che si sono fatte e agli impegni di vita si arriva a corde interiori così delicate da scatenare tempeste.9

Quando si è nel tunnel dell’angoscia, della paura, del disorientamento completo si diventa come insensibili a tutto. Una sorta di velo cade sulla realtà che viene percepita ostile e minacciosa e pertanto diventa insopportabile. Eppure…10

Ma questo non basta perché Chiara Lubich, in una lettera a Egidio Santanché, aggiunge un altro elemento:

Anch’io ti auguro di guarire, ma di non perdere il bel rapporto che hai trovato con Dio.11

Se non soffri perdi il rapporto con Dio, parrebbe dire? Stare bene in salute potrebbe quindi voler dire non essere nella “piaga” di Gesù Abbandonato (termine focolarino) e quindi rischiare di cadere nella banalità del normale che, detto in gergo focolarino, significa essere nell’umano e quindi non essere nel soprannaturale. Sintetizzando: la guarigione vista come situazione di “comodo”, quindi quasi opposta alla scelta del dolore nel modo che abbiamo visto.

Si noti che Chiara Lubich, in questo come in altri periodi12, ha vissuto forti difficoltà psicofisiche e lo stesso Santanchè venne ingaggiato come suo psichiatra di sostegno.13

Questa la fotografia di Egidio Santanchè, dopo pochi mesi/anni di vita in Focolare. Sembra, al di là delle interpretazioni dell’autore, la situazione di una persona con gravi turbe psichiche o, come minimo, in preda a grossa crisi depressiva. Seguendo il pensiero del padre di Egidio (“questo me lo rovinate” 14) viene da ipotizzare che esista quindi una causalità fra la vita imposta nel Focolare e la salute di Santanchè.

Dalle considerazioni precedenti viene da chiedersi da dove venga questa lettura “mistico-manipolativa” del dramma di una persona malata di “depressione” (il termine è usato da Coccoluto ma tutt’oggi viene riconosciuto come burnout e ampiamente descritto in varie tipologie professionali). Chiara cita la famosa frase dei benedettini:

Ma nelle tenebre vai in cerca di una luce raggiante: perché solo in una notte fonda brillano le stelle.15

già abbracciata nel testo su citato “Ho un solo sposo sulla terra...”. Si può ipotizzare come un vortice verso il baratro?

Viene in evidenza la mancanza di un contrappeso che, nella cultura cattolica, è di solito la figura del Risorto. Senza la resurrezione quale spinta propulsiva, anche fortemente ideologica, chi può spingere un uomo a progredire e superare le difficoltà? Sembra che la fotografia si fermi al dolore. Ecco cosa scrisse William James a proposito dell’esperienza mistica:

È fugace, momentanea, passeggera e presuppone in colui che la vive un’attitudine di abbandono.16

Stando alla descrizione di James, il sentiero percorso da Lubich tutto pare tranne che un’estasi momentanea o passeggera; sembra più il racconto della difficoltà a ritornare fuori dall’estasi (mia definizione sintetica). Aggiungo questo illuminante passaggio di Torri de Araújo relativo al “Discernimento tra mistica e psicosi”:

Per lo pseudo-mistico, Dio è soprattutto un oggetto del cui possesso egli gode. Avendo fatto di Dio un oggetto per la soddisfazione del suo desiderio, il falso mistico, per così dire, «lo divora». Il mistico autentico, a sua volta, riconosce Dio come un altro libero e indipendente; non lo tratta come un oggetto presumibilmente capace di soddisfare il suo desiderio. Il falso mistico stabilisce con Dio una relazione di tipo fusionale. Egli tende a perdersi, dissolversi, eliminare il proprio io nella relazione con il divino. Il vero mistico, invece, preserva la sua condizione di essere separato e, a partire da ciò, stabilisce un vincolo amoroso con Dio, riconosciuto come alterità. […] Di fatto, nella sua proposta di relazione con Dio, lo pseudo-mistico cerca di riprodurre, facendo uso di un linguaggio religioso, la relazione di unione fusionale con il materno. Di conseguenza la sua relazione con il divino assume questi contorni o questa mancanza di contorni. Nella mistica cristiana, per quanto intima si possa pretendere che sia la relazione con Dio, si tratta ancora di un’unione, non di una fusione; l’ego umano non è assorbito dall’ego divino; l’ego personale non sparisce nell’oceano dell’Assoluto. L’unione mistica con Dio non significa una fusione con il tutto e il conseguente annullamento dell’io.17

In un documento pubblicato al tempo in cui Ratzinger era prefetto, la Congregazione per la dottrina della fede ha ricordato espressamente questo punto.18

Torri de Araújo aggiunge:

La regressione psicotica, invece, ha un effetto di disintegrazione della personalità dell’individuo, producendo uno stato di disorganizzazione psichica. Ha un carattere caotico e confusionale provocando danni irreparabili al senso di identità e all’io del soggetto. In altre parole, quando si tratta di identità della persona, le esperienze mistiche integrano, organizzano, stabilizzano, promuovono, arricchiscono, rafforzano, fanno crescere. Le esperienze psicopatologiche, invece, disintegrano, disorganizzano, destabilizzano, distruggono, impoveriscono, debilitano e fanno perdere. […] Lo pseudo-mistico esige la presenza ininterrotta di Dio, l’oggetto del suo desiderio, e richiede la presenza costante del godimento della fusione. Egli non tollera l’assenza di Dio, non sopporta la mancanza dell’oggetto divino, non ammette la distanza da colui che lo soddisfa, non accetta, infine, la sua condizione di essere separato. Il mistico autentico, invece, accetta con serenità le apparenti assenze di Dio e, di conseguenza, l’inevitabile alternanza tra unione e separazione, presenza e assenza, consolazione e desolazione, parola e silenzio, luci e ombre, compagnia e solitudine, pienezza e vuoto, godimento e aridità.19

Se non può mancare l’oggetto divino, quindi, l’impegno stressante e continuo a osservare le norme spirituali e pratiche della giornata diventa un mezzo utile di uniformità, conformità e “unità”.

Un tunnel dal quale non si deve uscire, una strada obbligata. Perché? Per evitare l’occasione di “ripiegarsi su sé stessi”. Ecco che le “pratiche di pietà” (termine usato da Don Bosco) diventano un monito per “restare nel soprannaturale”, cioè orientando ogni azione alla scelta di Dio secondo il pensiero della fondatrice.

È bene precisare che questa scelta radicale è riservata solo agli “eletti” ovvero a coloro che hanno fatto la scelta del Focolare: le/i focolarine/i a vita comune e le/i focolarine/i sposati (secondo il loro stato): costoro rappresentano il nucleo fondante della struttura e il perno ideologico. Tuttavia, anche in altre realtà del Movimento esistono casi dove la dedizione totale “alla causa” ha prodotto conseguenze similmente devastanti.

Per le “moltitudini”, ovvero agli aderenti delle altre realtà focolarine come i movimenti di massa, restano “attive” le tipiche influenze che si sono descritte nella parte iniziale.

Aggiungo un cenno alla “formula esaustiva” focolarina, legato al punto essenziale di Gesù Abbandonato secondo cui: Chiara = Esempio luminoso da seguire

Nel libro di Coccoluto si legge a tal proposito:

Debbo a te [la vita], quella del corpo [oltre a quella dell’anima]. Per avere trovato in te un Amore vero ho potuto resistere al buio e alla disperazione.20

Qui torna il tema che abbiamo accennato precedentemente: la scelta della fondatrice stessa come generatrice della “luce” ovvero come esempio massimo ed unico a cui sottostare. Quindi Chiara Lubich come punto di riferimento delle focolarine e dei focolarini. Per confermare questa osservazione cito ancora Chiara Lubich:

I popi sono, dunque, figli di Dio padre e di Maria. E come i bambini sono tutti abbandonati alla mamma, così i popi.21

Dove la mamma, stando alla narrazione della parte femminile e di quella maschile dei consacrati alla vita di Focolare, era Chiara stessa. In proposito è interessante quanto dice Coccoluto:

Tutto ciò Chiara Lubich lo vedeva condensato in quella scelta preferenziale – che per lei era un reale “abbraccio”- di Gesù Crocifisso e Abbandonato in tutte le circostanze dell’esistenza personale e collettiva, soprattutto in quelle più tragiche e terribili. Esse, pur senza perdere in genere tutto il loro carico di dolore, e a volte vera disperazione, tuttavia acquisivano -come per una misteriosa alchimia- senso, significato e in qualche modo scoperchiavano dimensioni di realtà totalmente sconosciute prima. Per lei quella scoperta non era stata solo un modo per affrontare e dare una risposta all’inevitabile domanda sul dolore. Era stato molto di più: dopo quasi due millenni di cristianesimo a Chiara era dato di penetrare – come attraverso uno squarcio- l’essere stesso di Dio. Tutto ciò che aveva a che fare con la realtà del supplizio della croce e del crocifisso, e oltrepassava completamente la sola dimensione esteriore della passione di Gesù per inoltrarsi in quella interiore che conduceva nell’intimo del mistero di Dio.22

Consenzienti a questa visione ed essendone fautori per una vita, alcuni focolarini della prima (e seconda) ora hanno cercato di creare, intorno a questa figura angelicata di Chiara, quella che potremmo definire una struttura blindata da cui scaturivano le direttive per il Movimento. Non si può affermare tout court che la fondatrice stessa ne fosse l’ispiratrice diretta; di sicuro non esiste evidenza di un suo diniego al dilagare di certe idee che sono poi state la fonte di tanti disagi e problemi gravi di salute per moltissimi focolarini e aderenti; anzi, esistono video e scritti (come alcuni che sono stati citati qui) che dimostrerebbero una sua maternità spirituale innegabile.

Tuttavia il Gesù abbandonato che Lubich elegge come sposo pare totalmente slegato dall’intero mistero pasquale di Incarnazione, Offerta e Resurrezione; sembra piuttosto svelarsi come una propria sostituzione a esso: lei è Gesù Abbandonato. Un processo non solo spersonalizzante ma profondamente masochistico, poiché lei sceglie è, decide; mentre Dio di fatto è muto, non dice nulla, non dà nessun mandato, nessuna missione. Lubich crea il suo Gesù.23

1. Antonio Coccoluto, Un filo d’erba che fissa le stelle, Città Nuova, Roma 2022.
2. Corrado Augias, Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù, Mondadori, Milano 2006.
3. Ricardo Torri de Araújo, Oltre il confine. Esperienza mistica e psicoanalisi, Edizioni Dehoniane, Bologna 2017.
4. Coccoluto 2022, p. 96.
5. Coccoluto 2022, p. 106.
6. Fabrizia Raguso, “O impacto do abuso ena vida espiritual da vítima” in Comunicação apresentada nas IV Jornadas de Filosofia da Religião realizadas na UCP Braga a 3 de junho de 2023 Reparação e Reconciliação. A resposta da religião à guerra e à crise dos abusos, 3.6.2023.
7. Chiara Lubich, Il grido, Città Nuova, Roma 2002, pp. 56–7.
8. Augias e Pesce 2006, p. 169.
9. Coccoluto 2006, p. 99.
10. Coccoluto 2006, p. 102.
11. Coccoluto 2006, p. 253.
12. Si veda in proposito La storia di Light (2015) di Igino Giordani, una figura carismatica focolarina tra i cofondatori del Movimento.
13. Un sostegno dato all’insaputa di quasi tutti i focolarini, come rivela il titolo del capitolo “Al servizio in incognito” in Coccoluto 2022, p. 172.
14. Coccoluto 2022, p. 105.
15. Cit. in Coccoluto 2022, p. 116.
16. Cit. in Torri de Araújo 2017.
17. Torri de Araújo 2017.
18. Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della meditazione cristiana a cura della Congregazione per la dottrina della fede, 23.2.1990.
19. Torri de Araújo 2017.
20. Coccoluto 2006, p. 285.
21. Cit. in Coccoluto 2006, p. 307.
22. Coccoluto 2006, p. 116.
23. Raguso 2023.

precedente  

Il materiale è distribuito con Licenza Creative Commons BY-NC-SA 4.0