Testimonianze

I difficili anni in Pakistan di una sopravvissuta

MARIA IARLORI

Mi chiamo Maria, sono stata gen e poi focolarina fino al 2000. Attualmente vivo in Canada e sono sposata dal 2004.

La mia storia segue il percorso di quella di tanti altri fino a Loppiano, quando nel 1985, alla fine della scuola, sono partita per il Pakistan, un paese musulmano con un piccolo focolare (esclusivamente femmminile) ancora agli inizi, lontanissimo da Roma. A quei tempi Internet non esisteva ancora. Eravamo cinque focolarine più la responsabile. Per capire la situazione che ho incontrato bisogna tenere conto che — oltre al cambiamento culturale, alimentare e climatico, mi sono trovata isolata in un paese non cristiano senza mezzi di comunicazione.

Ho lasciato il Pakistan per la prima volta dopo otto anni, e in quell’occasione all’aereoporto il poliziotto che ha controllato il passaporto continuava a sfogliare le pagine in cerca di un timbro di uscita dal paese: non lo trovava... perché non c’era! Alla fine mi ha guardato esterefatto, chiedendomi: «Davvero non sei mai tornata in Italia?!»

Sono una persona di sana e robusta costituzione. Grazie all’educazione ricevuta in famiglia e al mio carattere, ero dotata di un buon equilibrio psicofisico, ma gli abusi morali e psicologici che ho subìto per anni — e le prove fisiche che ho dovuto affrontare (in un paese dove la temperatura arriva a 50°C) per quindici anni — hanno lasciato un marchio indelebile nella mia psiche. Da vent’anni sono costretta a prendere tutte le mattine una pastiglia da 20 mg di un antidepressivo — il Paxil — che ho provato ad abbandonare in svariate occasioni senza successo; ho ancora incubi ricorrenti, ma per fortuna non ho più attacchi di panico.

E non sono l’unica in queste condizioni: molte di noi, in Pakistan, hanno vissuto una grave scissione interiore tra quello che ci sembrava giusto dal punto di vista etico e spirituale e il senso del dovere che ci imponeva di aderire ciecamente a quello che ci veniva ordinato di dire, fare e pensare — sempre in nome della cosiddetta Unità.

Finché in Pakistan c’è stato solo un focolare femminile, i problemi erano quelli che ho citato, ma poi è stato fondato un focolare maschile e le cose sono peggiorate. All’inizio, dato che i focolarini uomini dovevano prendere confidenza con la zona, essi dipendevano in tutto e per tutto dalla nostra responsabile — e in questo periodo andò tutto relativamente bene. Non appena cominciarono a muovere i primi passi da soli e a reclamare la loro indipendenza, il clima peggiorò moltissimo (fino al momento in cui — alla fine degli Anni Novanta — un focolarino della nostra zona mandò a Chiara Lubich una lettera fortemente critica, ma ne dirò meglio sotto).

Nella mentalità della responsabile e di tante focolarine, la parte femminile doveva mantenere la supremazia, essere inclusa in tutte le decisioni e avere l’ultima parola — in quanto più degli uomini rappresentava Chiara Lubich in persona. Guai a scambiare una parola con un focolarino, e tutto quello che facevano i focolarini maschi veniva criticato a oltranza.

La nostra responsabile era l’unica ad andare agli incontri annuali al centro di Roma: ci andava da sola e solo negli ultimi anni ha cominciato a portare una di noi. Inoltre le (peraltro pochissime) visite di rappresentanti del Centro del Movimento erano sempre precedute da rigide istruzioni su cosa riferire e comunicare. Le due cose avevano creato un senso di isolamento e di abbandono. L’amarezza per il mancato sostegno, sia spirituale sia morale, era accresciuta dal fatto di dover sempre presentare una facciata positiva all’esterno. In definitiva, eravano totalmente in balia della volontà e delle decisioni di una singola persona.

Per non parlare del tema della povertà, che da solo riempirebbe un romanzo. Tenendo presente che ci trovavamo in un paese in cui la maggior parte della popolazione vive in estrema povertà, era davvero imbarazzante vedere la nostra responsabile girare su macchine di lusso con la scusa che doveva viaggiare in sicurezza — data la guida spericolata degli autisti pakistani. Alla responsabile piacevano i capi in pelle, dunque si concedeva di spendere un milione di lire per una gonna usando i soldi che le arrivavano dal Centro dei Focolari. Tutte le volte che andava in Italia, ne approfittava per pagarsi un periodo di vacanza in montagna. Spendeva per comprare fiori e regali costosi a Chiara Lubich. E cose se non bastasse, chiedeva alle nostre famiglie che ci procurassero un corredo (o la cifra equivalente in denaro) sulla base del fatto che non ci eravamo sposate ma ci spettava la stessa cosa che i nostri genitori avevano riservato agli altri figli.

Racconto un solo episodio, particolarmente significativo. Mio fratello e mia cognata non potevano avere figli. Quando vennero a trovarmi in Pakistan ci chiesero se era possibile adottare un bambino del luogo. Con mio fratello siamo molto legati, essendoci solo diciassette mesi di differenza di età. Quando arrivò il momento di andare a prendere lui e la moglie all’aereoporto, la responsabile fece di tutto per tenermi impegnata (e lo stesso fece durante tutta la loro permanenza) e alla fine mandò a riceverli in aereoporto un’altra focolarina. Nonostante non vedessi mio fratello da anni. Rientrato in Italia, mio fratello mi telefonò chiedendomi notizie sull’adozione. Eravamo state dalle suore di Madre Teresa per prendere contatti, e gli risposi che l’avrei richiamato.

Quando riferii il fatto alla responsabile, mi disse di richiamare mio fratello e chiedergli se poteva anticiparci una somma di denaro (e si trattava di un ammontare considerevole) per un progetto: si doveva aiutare una famiglia a lanciare un proprio business o qualcosa del genere. Parlai dunque con mio fratello, il quale mi rispose che non aveva la somma a disposizione perché aveva tutti i risparmi in depositi vincolati. Quando riferii questo alla responsabile, costei si arrabbiò con mio fratello ed esclamò: «Sei una persona cattiva, non ti darò il bambino che vuoi.» Il tutto si svolse davanti a tutte le altre focolarine. Mi ordinò di scrivere a mio fratello che non potevano procedere con l’adozione e io, con la morte nel cuore, obbedii (o per dirla alla focolarina, “feci unità”) e scrissi. Fu per me un’esperienza straziante.

Persino mia nonna mi scrisse in seguito che era un peccato che non si potesse procedere con l’adozione perché quel bambino “avrebbe fatto una bella fine”. Dopo qualche giorno la responsabile ci disse tutta esultante che la capofocolare della città di Karachi aveva chiesto i soldi a suo fratello e lui — essendo una persona di cuore — glieli aveva dati. La madre della stessa focolarina mi disse anni dopo che, in realtà, il figlio si era rifiutato, dicendosi indignato per richiesta, ed era dunque stata lei a dare i soldi per salvare la figlia e pacificare la responsabile.

Le responsabili si sentivano direttamente legate a Chiara Lubich ed erano infastidite dall’interferenza del Centro delle focolarine nella gestione delle loro sottoposte, dei loro stipendi, della loro formazione, della loro salute, ecc.

Quando con un’altra focolarina sono andata a Roma per i voti permanenti (eravamo le prime del gruppo del Pakistan dell’epoca) la responsabile ci ha fatto saltare la scuola (con una qualche scusa che non ricordo) e siamo potute andare solo per il raduno: avremmo saltato la parte dei colloqui e della preparazione perché dovevamo avere il minor contatto possibile con il Centro.

Alla fine degli Anni Novanta, al rientro della responsabile da un raduno a Roma, venimmo a conoscenza della lettera critica mandata a Chiara Lubich da un focolarino che era stato per tanti anni al Centro del Movimento. Durante il raduno Chiara aveva letto il testo della lettera ma non aveva menzionato il nome del mittente né la zona di provenienza (ma noi sapevamo che arrivava da un focolarino del Pakistan). La responsabile ci riferì il senso generale del testo, dicendoci che venivano criticati i metodi autoritari dei responsabili che rendevano la vita difficile a tutte e tutti. Ricordo una frase in particolare: «La persona responsabile merita una medaglia per tutto quello che deve soppportare» e la responsabile dell’India chiese alla nostra capo focolare: sarai mica tu?

Nello stesso periodo, quando la situazione in focolare era diventata insostenibile, un gruppo di noi — proprio come le focolarine del Belgio — ha cercato di contattare il Centro da cui siamo state sempre tenute lontane il più possibile. Ci siamo fatte coraggio e ho chiamato personalmente Roma. Quando è saltata fuori la notizia che una di noi aveva contattato il Centro romano, è crollato il mondo: impossibile descrivere il clima di terrore e ansia che si è creato; mi sono fatta coraggio e ho confessato alla responsabile che ero stata io, senza menzionare le altre focolarine. Da quel momento sono stata marchiata a vita e allontanata come persona di cui non ci si può fidare.

Per me fu un momento difficilissimo, di cui serbo ricordi molto dolorosi. Non appena dissi che ero stata io a chiamare Roma dovetti lasciare subito il Centro Zona, raggiungere il focolare accompagnata dalla capo focolare e invitata a recuperare le mie cose nel Centro Zona (le due case erano vicine) solo in un momento in cui sia la responsabile, sia le altre focolarine erano fuori. Non so cosa mi abbia tenuto in piedi in quei giorni: ricordo di aver sognato mia nonna la notte; era con me in Pakistan, seduta sulla strada ad aspettarmi. È stato un sogno (e un segno) che mi ha dato coraggio. La primavera successiva la mia responsabile lasciò il Pakistan per la Libia.

Per mia fortuna, in Pakistan avevo un lavoro e ho potuto trasferirlo in Canada dove sono stata mandata quando ho chiesto di cambiare zona “per motivi di salute”. È stato chiaro sin dall’inizio che la responsabile non mi voleva e il processo di isolamento e continuato finché ho deciso di trovarmi un appartamentino in affitto e di lasciare il focolare.

Non ho più avuto contatti con le focolarine del Pakistan, se non nei primi mesi per chiudere alcuni conti bancari di cui ero co-intestataria. Nessuna ha più cercato di contattarmi, e ho trovato questa scomparsa assai dura da digerire. Ho ritrovato equilibrio e positività in alcune pratiche olistiche, a partire dall’aromaterapia: ho seguito alcuni corsi e al mio lavoro quotidiano ho aggiunto un’attività da aromaterapeuta.

Quando la presidente del Movimento Maria Voce è venuta in Canada, ho scritto un’email alla responsabile del Focolare chiedendo di poterla incontrare; mi fu risposto: «La presidente viene per i focolarini e le focolarine e non ha tempo per te. Se vuoi, puoi venire alla stazione ferroviaria e salutarla quando parte da Toronto per Montreal».

Più volte ho pensato di scrivere una lettera al Centro, ma mi è sempre sembrato troppo faticoso dal punto di vista emotivo; sono convinta, inoltre, che quando anche scrivessi, la mia lettera verrebbe messa da parte senza aprire alcun vero dialogo.

Allontanarmi dal Movimento non è stato facile, anche perché credevo di essere l’unica persona in una situazione simile. Qualche anno fa mi sono imbattuta in un blog dove ex membri del Movimento dei Focolari condividevano le loro esperienze e devo dire che questo mi ha aiutato tantissimo: la lettura delle varie esperienze e l’analisi che ne faceva la redattrice del blog costituirono un enorme sollievo. Quelle pagine mi hanno aiutato a superare il senso di colpa e a guardare alla mia esperienza dal punto di vista di una sopravvissuta, una persona che ha subìto ferite profonde che non ha meritato — per quanti sbagli possa io aver commesso.

Questo mi ha spinta a condividere sul sito di Oref la mia esperienza per dare il mio contributo.

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