Tutela legale

1.4 Violazione dei diritti sociali ed economici

Il mobbing

Fenomeno del mobbing e illeciti connessi: articolo 32-35-36-41 della Costituzione, articolo 2043 Codice civile, articolo 2087 Codice civile, D.lgs. 81/08.

Con il termine "mobbing" si fa riferimento ai comportamenti di alcuni soggetti nelle relazioni all’interno dei gruppi sociali di appartenenza, che spingono a isolare altri soggetti o a creare condizioni di difficoltà nella loro normale attività lavorativa o di vita, in modo da estrometterli dal contesto di riferimento o da rendere insopportabile la loro esistenza. È una forma di violenza psichica lesiva della dignità umana, che si manifesta con umiliazioni, diffusione di notizie non veritiere, comportamenti vessatori. È diffusa in ambito lavorativo, ma si realizza anche nelle relazioni amicali tra i giovani (bullismo) e tra gli adulti o all’interno di gruppi informali.

Queste situazioni provocano problemi psicologici e di salute nel soggetto vittima di tali comportamenti di prevaricazione.

Nel nostro ordinamento giuridico è possibile rinvenire una tutela di queste situazioni sia a livello costituzionale che civile e penale.

Costituzione La Costituzione all'articolo 32 riconosce e tutela la salute come un diritto fondamentale dell'uomo, all'articolo 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni all'articolo 41 vieta lo svolgimento delle attività economiche private che possano arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. e all’art. 36 sancisce che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa e che la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

Codice Civile Dal punto di vista civile l'articolo 2043 c. c. prevede l'obbligo di risarcimento per chiunque cagioni ad altri un danno ingiusto con qualunque fatto doloso o colposo.

L'articolo 2087 impone all'imprenditore di adottare tutte le misure idonee a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Il D.lgs. 81/08 (art 28 c1 bis ex D.lgs. 106/09) impone la valutazione dei rischi derivanti da stress da lavoro correlato, inteso come la condizione di squilibrio tra le richieste fatte al lavoratore e le sue effettive possibilità legate alle risorse presenti in ambito lavorativo. Questa condizione incide sullo stato di salute sia di tipo psicologico che fisiologico, riducendo l’efficienza e il rendimento del soggetto.

Esperienze delle vittime

Quando si parla di movimenti e famiglie religiose si pensa quasi esclusivamente ad aspetti spirituali e di vita morale; tuttavia, l’organizzazione della struttura impone che essi dispongano di immobili e patrimonio che sono gestiti dagli aderenti attraverso attività lavorative inquadrate spesso come mero volontariato. Il frutto del lavoro viene interamente devoluto al movimento/organizzazione religiosa che gestisce tutte le fonti di reddito.

Nelle strutture dei movimenti e delle famiglie religiose molti consacrati lavorano a tempo pieno per le attività di gestione e organizzazione dei Centri spirituali, svolgendo mansioni che rientrano a pieno titolo in una condizione di lavoro dipendente, che tuttavia non è regolato da nessun tipo di contratto, ma viene considerato, in modo improprio, “volontariato”.

Spesso l’orario di lavoro supera di gran lunga il massimo delle ore consentite, senza prevedere momenti di riposto giornaliero adeguato alle effettive esigenze di salute. Il lavoro viene imposto con atteggiamenti di prevaricazione e minaccia morale. Non è presente una corresponsione di retribuzione e le mansioni sono sottoposte a metodi di controllo e sorveglianza da parte degli amministratori della struttura. Il lavoro è posto come parte del piano di santità cui ogni membro deve conformarsi.

Le testimonianze raccolte e condivise dimostrano una gestione delle mansioni lavorative non rispettosa dei diritti del lavoro che genera situazioni di stress e di salute compromessa .

Nello Statuto dei lavoratori è presente una forma di tutela che prevede la punizione di comportamenti discriminatori da parte del datore di lavoro.

Dal punto di vista penale il mobbing non è previsto come specifica figura di reato, ma i comportamenti gravi che rientrano in questa fattispecie possono essere considerati riconducibili a volte al reato di lesioni personali di cui all'articolo 590 del Codice penale o di violenza privata disposta all’art. 610 del Codice penale.

Inoltre, si possono configurare in diversi casi situazioni di sfruttamento che potrebbero rientrare nella fattispecie disciplinata all’art. 603 bis c.p. che “punisce chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, sul solo presupposto dello stato di bisogno dei lavoratori e senza che sia richiesta, per l'integrazione della fattispecie, una finalità di lucro”.

Le vittime di mobbing o di violenza trovano la principale fonte di tutela nella possibilità di esperire i tradizionali rimedi civilistici offerti dal nostro ordinamento attraverso l’azione per il risarcimento del danno delle sofferenze patite sia patrimoniali che non patrimoniali.

Si può essere risarciti per le lesioni della salute psico-fisica (danno biologico), per le sofferenza interiori derivanti dalle condotte persecutorie (danno morale) e per il peggioramento delle condizioni di vita quotidiane (danno esistenziale), ma anche per il danno patrimoniale che comporta un'incidenza negativa sulla sfera economica del soggetto danneggiato, per esempio essere stato costretto a sostenere delle spese mediche, farmaceutiche o per visite specialistiche.

Tra le esperienze raccolte emerge il disagio provocato dal lavoro all’interno del Movimento dei Focolari e della prelatura dell’Opus Dei fino al punto da dover affrontare percorsi di psicanalisi o di psicoterapia con connessa cura farmacologica.

Gli aderenti consacrati che svolgono attività, a tutti gli effetti lavorative, organizzate nell’ambito del mero volontariato, in assenza quindi di regolare contratto di lavoro, non hanno copertura assicurativa né tutela in caso di cessazione dell’attività.

Questa modalità di gestione del lavoro si configura pertanto come lavoro “irregolare” che priva il lavoratore dei suoi diritti sociali, quali la disoccupazione o la pensione, poiché per usufruirne è necessario versare i contributi richiesti.

Assumere un dipendente quindi senza stipulare un contratto di lavoro è illegale.

Molti aderenti consacrati hanno lavorato per le istituzioni religiose di appartenenza per diversi anni senza contratto di lavoro, pertanto una volta usciti, si sono ritrovati senza risorse per ricominciare una nuova vita e senza contributi per ottenere una pensione adeguata.

In mancanza di prova scritta - non essendovi di fatto un contratto di lavoro - diventa molto impegnativo, se non impossibile, riuscire a provare la sussistenza di un rapporto di lavoro, e quindi avviare una causa ordinaria, con la quale mirare ad accertare il diritto al versamento degli arretrati e alla regolarizzazione dei contributi previdenziali.

Artt. 2 e 3 della Costituzione; Art. 769 e ss. c.c.; Legge 222/85, art. 15; Articolo 2034 c.c.

In molte formazioni sociali è prevista una forma di tutela dei diritti patrimoniali del singolo, che contribuisce con la propria attività lavorativa o il proprio apporto economico alla realizzazione dell’obiettivo comune, per il quale si costituisce il gruppo. Ciò vale sia per le formazioni di carattere affettivo, come la famiglia o i gruppi di interesse formali, sia per le formazioni di carattere associativo o economico, come le organizzazioni e gli enti a fini lucrativi o non profit.

Le formazioni sociali, all’interno delle quali la persona intende esprimersi e cercare il proprio pieno sviluppo, sono disciplinate dagli artt. 2 e 3 della Costituzione. Poiché le relazioni sociali non possono prescindere dalla gestione patrimoniale dei beni, che vengono utilizzati nella conduzione della vita insieme, l’ordinamento giuridico prevede sempre forme di tutela in questo senso. Laddove si sono presentate lacune, si è sentita l’esigenza forte di un intervento del legislatore, come per esempio nella riforma del diritto di famiglia del 1975, con cui è stato introdotto l’istituto giuridico dell’impresa familiare per tutelare i familiari che lavorano nell’impresa di famiglia, e si è istituito il principio di uguaglianza dei coniugi, con l’obbligo di assistenza morale e materiale, e infine con la nuova normativa sulle unioni civili (L. 76/2016), che regola anche il regime patrimoniale.

I consacrati a vita comune escono dalla propria famiglia di origine, mossi da una spinta affettiva, per creare una formazione sociale a carattere religioso e spirituale che è, di fatto, in tutto e per tutto, simile ad una famiglia.

Tuttavia, mentre nella famiglia sono previsti diritti e doveri giuridicamente tutelati, si avverte un vuoto normativo per quanto riguarda le formazioni sociali religiose a vita comune, la cui organizzazione è lasciata solo alle disposizioni statutarie, che troppo spesso sono orientate al raggiungimento dei fini della comunità, a scapito del benessere individuale dei componenti.

Dall’esperienza dei fuoriusciti emerge che la partecipazione alla vita comunitaria prevede la donazione totale del proprio reddito al gruppo (stipendi, risparmi, testamenti in favore degli enti di appartenenza), utilizzato in parte per le necessità dei membri (a discrezione dei direttori/direttrici), e in parte donato ai centri nazionali o internazionali per i fini generali.

Non sono previste, quindi, disposizioni per garantire una gestione autonoma del reddito da lavoro, percepito dai singoli, né durante il periodo di appartenenza né tantomeno durante il periodo di allontanamento.

Molti fuoriusciti, infatti, si sono trovati senza lavoro, senza risparmi e senza previdenza sociale.

Anche laddove la donazione al movimento ecclesiale/organizzazione religiosa sia spontanea, essa è comunque prevista come condizione necessaria per l’adesione, tanto che chi non si conforma a questa regola, non può rimanere affiliato o subisce forti pressioni psicologiche, affinché la donazione sia comunque elargita.

Dal punto di vista civilistico le elargizioni economiche ad enti morali vengono regolate dal Codice civile nell’istituto delle obbligazioni naturali. L’articolo 2034 c.c. recita che “Non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti”.

Questa è la disposizione normativa, che verrebbe applicata a chi aderisce a enti o movimenti religiosi. Nel caso in cui non sia stabilito diversamente da regole interne, chi ha lasciato tutto il suo stipendio, per anni, all’opera, non ha nessun tipo di tutela patrimoniale, in quanto non può chiederne la ripetizione.

Se questa disposizione normativa è giustificata dal fatto che siamo in presenza di un obbligo di natura morale o sociale, in cui vi è un adempimento spontaneo sporadico basato su principi etici, lo stesso non si può dire nel caso di un adempimento patrimoniale basato su una forma di convivenza stabile, quale che sia la sua natura. In questo caso, chi adempie ad un obbligo, che risponde all’esigenza di conferire beni o denaro in modo continuativo e sistematico, avrebbe diritto ad una forma di tutela per quanto riguarda la gestione, la destinazione e l’eventuale divisione, in caso di cessazione del rapporto o dello stato di convivenza, come avviene per la fine di una persona giuridica o per lo scioglimento del vincolo di matrimonio o di unione civile.

Gli statuti degli ordini religiosi e dei movimenti ecclesiali non sempre prevedono per i loro membri forme di tutela patrimoniale in questo senso.

Il reddito dei membri interni viene solo in parte utilizzato per le esigenze specifiche della comunità in cui ciascuno vive, mentre il resto viene donato completamente all’opera. Nessun membro, inoltre, può decidere autonomamente la gestione del denaro che guadagna con un eventuale lavoro professionale esterno al movimento, poiché deve consegnare l’intero suo reddito ai direttori/direttrici.

Secondo il disposto dell’art. 769 e ss. c.c., la donazione deve essere mossa dall’animus donandi, cioè per mero “spirito di liberalità”. La prassi, in voga nei movimenti e nelle famiglie religiose, di impegnare i consacrati a donare tutto ciò che hanno e che riceveranno in eredità dalle famiglie, fa venir meno lo spirito di liberalità, che dovrebbe caratterizzare l’istituto della donazione, poiché esso è imposto da una condotta di vita che si è obbligati ad abbracciare, se si vuole far parte della comunità.

Inoltre, in termini giuridici, l’impegno in questione costituisce un preliminare di donazione. Tuttavia, dottrina e giurisprudenza, da tempo, negano la compatibilità della donazione con la figura del contratto preliminare, proprio perché questo negherebbe il carattere di liberalità spontanea, che costituisce l’elemento indefettibile della donazione.

Con la sentenza n. 6080 del 4 marzo 2020, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità nel nostro ordinamento di una promessa a donare: “La presenza di un futuro obbligo negoziale a contrarre comporta, in capo al donante, l’obbligo di manifestare in un successivo, definitivo atto, la propria determinazione alla liberalità che, viceversa, nel contratto di donazione è frutto di una volontà spontaneamente ed istantaneamente manifestata.”

Tale principio è in linea con la già consolidata giurisprudenza di Cassazione, secondo cui “una promessa di donazione non è giuridicamente produttiva di obbligo a contrarre, perché la coazione all’adempimento, cui il promittente sarebbe soggetto, contrasta con il requisito della spontaneità della donazione, il quale deve sussistere al momento del contratto” (ex multis Cassazione Civile, Sezioni Unite, 18 dicembre 1975 n. 4153 e Cassazione Civile, sezione III, 8 giugno 2017 n. 14262).

Più in generale, si potrebbe pensare all’introduzione legislativa della sanzione civilistica della nullità in ordine a negozi giuridici a titolo gratuito (es. testamento, donazione) da parte di adepti e nei confronti di soggetti risultati responsabili di “riduzione in servitù” ex art. 600 c.p.; o anche rispetto a negozi giuridici a titolo oneroso, quando vi sia sproporzione tra quanto è oggetto della prestazione e quanto è ricevuto (ad es., ultra dimidium).

Democrazia

Non viene ammessa la possibilità per i membri interni di partecipare alla vita dell’opera attraverso decisioni condivise e un confronto sugli aspetti economici. Non è prevista l’approvazione sociale di un bilancio preventivo, per decidere come spendere le risorse, né un rendiconto consuntivo per approvare il riepilogo storico delle spese, cosa che invece è regola per tutte le associazioni di volontariato.

Non esiste un organo decisionale collegiale a vari livelli, formato da rappresentanti di tutte le branche, né una modalità di decisione condivisa sulle questioni della vita comunitaria, in modo che tutti possano contribuire agli aspetti gestionali/organizzativi, ma anche ai valori di fondo delle decisioni adottate. I processi decisionali sono demandati ai responsabili gerarchici, che decidono le sorti dell’opera, senza condividerle con la base.

I procedimenti deliberativi non sono democratici, come del resto avviene nella Chiesa Cattolica, sono informati ai dogmi dei carismi o sono il risultato di un’ambigua interpretazione dello Spirito Santo da parte di chi viene investito della cosiddetta “grazia di stato”, che tuttavia - a fini giuridici - risulta contraria ai valori costituzionali e civili.

Inoltre, gli aderenti che operano in vario modo all’interno di movimenti ecclesiali, non vengono censiti ufficialmente attraverso una scheda di iscrizione, in modo da prevedere, per esempio, il pagamento di un’assicurazione sugli infortuni durante le attività svolte, come invece avviene per altri enti che operano nella società civile o nel Terzo settore.

La costante richiesta agli interni e ai simpatizzanti di denaro e di beni materiali, destinati poi al mantenimento delle strutture organizzative e delle attività economiche (imprese, centri di formazione, scuole, ecc.) ha portato a costituire un patrimonio immobiliare ingente, utilizzato nella loro azione di propaganda per “iniziative apostoliche” , o per le opere di carità nel mondo, ma funzionale, nella pratica, a rafforzare le loro istituzioni e il potere.

Le pressanti richieste di smisurate quantità di denaro nei confronti degli aderenti avvengono attraverso metodi propri di un’attività commerciale, ma non vengono registrate in nessun documento formale.

Le attività svolte dai Centri Convegni, dalle attività produttive, dalle cooperative sociali, dai luoghi di spiritualità, in molti casi, sono, a tutti gli effetti, attività commerciali o di ricezione alberghiera, ma non sono gestite come tali.

La Legge 222/85, art. 15, stabilisce che «gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto, alle condizioni previste dall'articolo 7, n. 3, comma 2, dell'accordo del 18.02.84», e l’Accordo 18.02.84, art. 7 n. 3, comma 2, precisa che «le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette (…) alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime».

Sono molti i consacrati o gli aderenti, che, a titolo di volontariato, hanno svolto, in modo continuativo o per periodi prolungati, mansioni di ausilio alle attività dell’Opera, per esempio nei Centri o nei conventi; tuttavia non sono stati inquadrati come lavoratori, anche se a tutti gli effetti lo sono stati, configurando così un’evidente violazione dei diritti dei lavoratori, della normativa della sicurezza, della previdenza sociale o del diritto tributario, ma non sono stati nemmeno assicurati come volontari, secondo la normativa vigente relativa agli obblighi assicurativi dei volontari del terzo settore.


Testo di Martina Castagna, Luigi Corvaglia, Paolo Florio, Guido Licastro, Maurizio Montanari, Emanuela Provera, Federica Roselli, Cecilia Sgaravatto e Monique Van Heynsbergen, tratto da Riflessioni giuridiche ed etiche sull’esperienza di adesione alle famiglie religiose e ai movimenti ecclesiali della Chiesa Cattolica. Giustizia e tutela dei diritti nella vita delle comunità ecclesiali (febbraio 2023).

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