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Unità o uniformità? I dubbi sul Movimento del cardinale Braz de Aviz

News pubblicata il 23 ottobre 2020 • Testo di Valerio Gigante

Doveva essere un evento di promozione e propaganda per l’Opera di Maria, il movimento dei Focolari, la cui fondatrice – Chiara Lubich – è in dirittura di arrivo per la beatificazione. Si tratta di un webinar del 18 ottobre scorso, organizzato dal Centro Chiara Lubich di Rocca di Papa (Roma) per riunire alcuni tra i primi Gen (Generazione Nuova, i giovani focolarini) che nel 1966 raccolsero l’invito di Chiara Lubich e dettero vita all’espressione giovanile del Movimento. Moderato dal giornalista del Tg3 Gianni Bianco, diversi ex Gen si sono dati appuntamento per raccontare – alcuni giovani di ieri insieme a giovani di oggi – l’incontro con Chiara Lubich e con il carisma focolarino. In mezzo a molti elogi e riconoscimenti alla fondatrice e all’Opera, vi sono state però qui e là critiche anche piuttosto dure, legate soprattutto alla rigida gerarchizzazione e compartimentazione che vige nel movimento, al carattere repressivo e sessuofobico delle regole interne, alla difficoltà di esprimere punti di vista diversi da quello che promana dal vertice e viene trasmesso ai capi zona e ai capi focolare in ogni parte del mondo. E l’evento si è trasformato in un mezzo boomerang.

Soprattutto perché la critica più eclatante è arrivata dal cardinale João Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per i Religiosi, gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica e prete-focolarino della prima ora (nel webinar racconta di essere entrato nel movimento Gen nel 1968 e il suo incontro indelebile con Chiara Lubich). Braz de Aviz, assieme al card. Angelo Becciu, che però è stato recentemente “defenestrato”, è l’esponente più influente tra i focolarini che si trovano in Vaticano.

Dopo una serie di elogi al carisma di Chiara e dopo aver espresso riconoscenza per ciò che il movimento ha rappresentato nella sua vita di uomo e di prete, Braz de Aviz confessa: «Oggi trovo molte difficoltà col movimento. Ci sono varie questioni sulle quali non ho potuto confrontarmi, perché esistono dei blocchi che non ti permettono di entrare in dialogo; questo mi dispiace moltissimo perché il carisma dell’unità trova questi muri che non ti permettono il confronto. Per me questa situazione è come una domanda che non trova risposte. Mi trovo a volte più a casa nella Chiesa, con tutti i suoi peccati, che dentro l’opera». Il discorso è duro e a quel punto il cardinale sente il bisogno di precisare: «Non voglio allontanarmi dall’Opera, però non trovo modo di dialogare con apertura, con libertà».

Il carisma dell’unità cui fa riferimento Braz de Aviz è uno dei cardini del pensiero di Lubich. Si tratta di una spiritualità comunitaria che dovrebbe incoraggiare la fraternità e lo spirito ecumenico, il dialogo e la capacità di creare relazioni solidali. Ma che nel movimento è da anni anche strumento ideologico funzionale al controllo sulle coscienze, all’imposizione dell’uniformità, più che alla promozione dell’unità. La volontà del singolo deve cioè identificarsi con quella dei superiori. E tutto deve riferirsi alla volontà di Chiara, che si presenta come attuazione del carisma mariano. Una dinamica che in verità sembra teorizzata dalla Lubich stessa nei suoi scritti. In Gesù in mezzo nel pensiero di Chiara Lubich (Città Nuova, 1981, pubblicato quindi dalla casa editrice del movimento con Chiara ancora in vita), ad esempio, a p. 67 si legge una trascrizione di una conversazione della Lubich del 2 ottobre 1955, nella quale la fondatrice dell’Opera dice esplicitamente: «Non c’è unità se non là dove non esiste più personalità». E poco dopo: «L’unità esige anime pronte a perdere la propria personalità».

Insomma, che le critiche del cardinale Braz de Aviz siano la manifestazione di un disagio è certo. Che questo disagio sia una novità e non una questione radicata nella stessa “teologia” focolarina è invece più dubbio.

A sostegno di questa interpretazione c’è anche un’altra circostanza. Braz de Aviz nel suo breve discorso al webinar degli ex Gen si era agganciato a un intervento che aveva preceduto il suo, quello di Anna Maria Moscatelli, tra le primissime Gen a Roma, ora psicologa, che aveva lasciato il movimento pochi anni dopo il suo avvio. La Moscatelli, oggi buddhista, aveva detto che se quella dei Gen è stata una «rivoluzione» (parola molto utilizzata nel corso del webinar), si è trattato però di una «rivoluzione tradita». E aveva parlato di una grande asfissia che aveva percepito all’interno della realtà focolarina, «dovuta alla rigidità e alla sessuofobia in quegli anni (...) molto forte, soprattutto nell’ala femminile del movimento».

C’è stato anche un altro intervento critico, seppure tra le righe ed espresso con molta diplomazia. Quello di Franz Coriasco, scrittore e autore radiotelevisivo e teatrale, anche lui Gen della prima ora e poi uscito dal movimento. Coriasco era stato invitato anche perché ha recentemente scritto il libro Generazione nuova. La storia del movimento Gen raccontata da un testimone, pubblicato dall’editrice focolarina Città Nuova edizioni. Un libro che – ha detto Coriasco nel corso del suo intervento – non è nato da una sua iniziativa, ma che gli è stato esplicitamente chiesto da Città Nuova. E ha quindi spiegato: «Ho accettato per gratitudine nei confronti di Chiara, ma anche perché mi pareva una sfida interessante dal punto di vista narrativo. Perché il movimento Gen, almeno stando ai numeri, parrebbe la storia della sconfitta di una utopia romantica». Un modello esistenziale prima ancora che religioso e ideologico che nella parole di Coriasco non è detto sia ancora in grado di affrontare le sfide poste dai cambiamenti intercorsi in questi decenni nella Chiesa e nella società. Alla fine del suo intervento infatti chiede e si chiede, sibillinamente: «Siamo all’inizio della fine di questa storia, o soltanto alla fine del suo inizio?».1

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